di Sophia Pietroluongo
Lo scopo è quello di analizzare le sfide affrontate dal patrimonio artistico italiano durante la Seconda Guerra Mondiale, sottolineando l’importanza delle operazioni di salvataggio avviate nell’ottobre del 1943. Tali operazioni che furono orchestrate dall’Ufficio delle Arti di Roma, con la partecipazione di esperti del calibro di: Pietro Toesca storico dell’arte, e il critico Giulio Carlo Argan. La minaccia rappresentata dall’occupazione straniera e dai bombardamenti, portò ad un’azione coordinata tra vari enti per proteggere le opere d’arte, considerate simboli di identità culturale e nazionale.
Prima che iniziassero le operazioni di salvataggio fu creato un elenco delle opere più importanti da proteggere. Uno degli aspetti più importanti di queste operazioni fu la scelta di trasferire le opere d’arte nella Capitale per l’unione di due motivi: la dichiarazione di Roma come città aperta (zona nella quale si rinuncia all’utilizzo di mezzi offensivi e difensivi per la tutela della popolazione) e la sacralità del suolo Vaticano.
I documenti che abbiamo rivelano un profondo senso di responsabilità civica l’obiettivo di mantenere il controllo diretto sulle opere d’arte, un compito di vitale importanza in un momento in cui la cultura sembrava così vulnerabile.
Le trattative con la Santa Sede erano già state avviate in agosto, e il 14 ottobre Roma fu dichiarata ufficialmente “città aperta”. Questa dichiarazione avrebbe dovuto porre fine ai bombardamenti, ma la realtà si rivelò ben diversa, con attacchi aerei che continuarono a colpire la città. Nonostante gli attacchi aerei continuassero a colpire Roma, si stabilirono protocolli per il trasferimento delle opere, che sarebbero state imballate in casse sigillate e numerate. La complessità dell’operazione richiese una scrupolosa documentazione e un coordinamento tra le autorità italiane e tedesche. In particolare l’ufficio tedesco per la protezione artistica, nonostante le tensioni politiche, mostrò una certa collaborazione, sottolineando un paradosso: la salvaguardia del patrimonio culturale era un obiettivo condiviso, al di là delle divisioni politiche – ideologiche. La capacità di lavorare insieme, anche in circostanze così avverse, evidenziò l’importanza di una visione comune per la protezione della cultura.
Con il direttore generale dei Musei Vaticani, furono presi i seguenti accordi: 1) Le opere d’arte entreranno nella Città del Vaticano con mezzi privati italiani; 2) Esse saranno conservate nei depositi della Pinacoteca, i quali presentano ogni garanzia per la migliore conservazione delle opere stesse; 3) Le opere saranno chiuse in casse sigillate e numerate; l’elenco delle opere contenute in ciascuna cassa rimarrà nelle mani dell’Autorità italiana; 4) Una Commissione di funzionari italiani rimarrà in continuo contatto con la Direzione dei Musei Vaticani per le necessarie verifiche periodiche del materiale per l’eventualità che si renda necessaria l’apertura delle casse ecc.
Il primo trasferimento di opere in Vaticano avvenne il 27 novembre 1943; con opere che già si trovavano a Roma; si trattava di casse che provenivano da comuni del Lazio e che vennero sistemate temporaneamente nella Capitale. Questo evento segnò un punto cruciale nelle operazioni di
salvataggio. Le opere furono conservate in ambienti protetti per garantire la loro sicurezza. Una di queste casse conteneva la Deposizione di Raffaello della Galleria Borghese, il cui peso richiese un’attenzione speciale per evitare danni durante il trasporto. Tuttavia, le difficoltà pratiche e le pressioni delle autorità tedesche complicarono ulteriormente le operazioni. Nonostante ciò, molti funzionari italiani continuarono a lavorare instancabilmente per completare la missione di salvataggio.
Le spedizioni di opere d’arte si susseguirono fino alla liberazione di Roma nel giugno del 1944. Questo evento non segnò solo la fine di un’occupazione, ma anche l’inizio di una rinascita culturale. Le opere salvate rimasero in Vaticano fino alla fine del conflitto, dopodiché furono restituite ai rispettivi musei. Prima che le opere tornassero ai rispettivi musei furono esposte in due mostre che fecero da apripista per le successive manifestazioni culturali. La “Mostra dei Capolavori della Pittura Europea” e la “Mostra d’Arte Italiana”, furono organizzate a Palazzo Venezia nel 1944 e 1945, permettendo al pubblico di riappropriarsi del patrimonio culturale. Ma ce da chiedersi: perché entrambe a Palazzo Venezia? La risposta va cercata guardando al periodo storico: Mussolini, negli anni Venti, scelse Palazzo Venezia come sede del Governo per la sua valenza risorgimentale e rinascimentale. L’edificio quattrocentesco era un perfetto simbolo della rinascita della nazione durante la nuova Era Fascista.
È assai interessante notare che la prima esposizione che si è svolta a Palazzo Venezia dopo la liberazione della Capitale dai nazifascisti, fu una mostra di opere del Rinascimento. Anche questo periodo fu interpretato nuovamente in chiave politica, questa volta dagli americani e dalle neonate istituzioni antifasciste italiane, per dimostrare un’ennesima rinascita della nazione, in senso democratico.
Furono scelte opere considerate cardine del Rinascimento internazionale tra cui: la Crocifissione di Masaccio, la Tempesta di Giorgione, Amor sacro e amor profano di Tiziano, lo Sposalizio della Vergine di Raffaello, la Flagellazione di Piero della Francesca, due opere di Caravaggio quali Vocazione di San Matteo e Martirio di San Matteo. La seconda esposizione non solo, come la prima, aveva il compito di valorizzare l’arte rinata dopo la guerra, ma evidenziarono anche il ruolo politico dell’arte e la cooperazione tra pubblico e privato nella ricostruzione del paese. Le mostre furono inoltre un’occasione per discutere la responsabilità della tutela del patrimonio artistico, evidenziando che la sua salvaguardia richiede sia l’impegno dei funzionari sia un lavoro critico di qualità da parte degli studiosi.
Tra le due mostre c’erano varie differenze. In primo luogo la matrice era differente: la prima era incentrata sull’arte europea mentre la seconda sull’arte italiana. Anche gli organizzatori erano tutti italiani. L’ente organizzatore fu l’Associazione Nazionale per il Restauro dei Monumenti Danneggiati dalla Guerra.
Lo scopo era aiutare lo Stato nella raccolta di fondi da destinare al risanamento del patrimonio artistico.
La scelta di comprendere sia opere appartenenti a musei pubblici sia a proprietari privati voleva significare, a cooperazione di pubblico e privato nella ricostruzione del Paese. La pittura veneta fu scelta, per differenziare l’esposizione dalla precedente e perché nei depositi del Vaticano erano conservate molte opere appartenenti a questa scuola artistica. Per quanto riguarda la seconda sezione, invece, insorsero problematiche fin dalla sua ideazione. Gli allestitori diedero le dimissioni perché ritenevano importante mostrare solo le opere sicure delle grandi raccolte romane ed evitare la rischiosa presentazione di quadri con dubbie attribuzioni, ma questa attenzione, secondo loro, fu disattesa. Un altro problema fu il rifiuto, da parte di alcuni privati, di prestare alcune opere autorevoli: il conte Roberto Sanseverino Vimercati negò la Pietà di Michelangelo (oggi al Castello Sforzesco), il principe Gregorio Boncompagni Ludovisi rifiutò la richiesta di prestito dell’Annunciazione di Boccaccino, perché non poteva cedere il quadro senza l’assicurazione. Infine, la parte del comitato che si dedicava alle opere private talvolta scese a patti con i proprietari delle opere per quanto riguardava le attribuzioni, per paura del ritiro delle opere. Tutti questi motivi, compreso il fatto che alcuni membri del comitato erano anche prestatori di opere, minarono la serietà scientifica dell’esposizione e dalla stampa si levarono alcune critiche. Numerose furono quelle mosse nei confronti di questa sezione, poiché gli errori fatti per non far ritirare le opere dai proprietari furono diversi. C’erano molte opere mal attribuite, per esempio la Madonna con il Bambino attribuita a Pinturicchio della collezione Schiff Giorgini, che in realtà è di un anonimo senese del secolo XIV. In conclusione, pare che le buone intenzioni dell’associazione non siano bastate, perché, come questi esperti d’arte denunciavano, in una mostra che si proponeva di esporre il meglio dell’arte italiana doveva prevalere la serietà scientifica, anche se il fine (la raccolta di fondi per il restauro) era meritevole.
Le due mostre furono pionieristiche nel rinnovamento culturale del dopoguerra e segnarono un passo importante per il patrimonio artistico italiano, dimostrando come l’arte possa fungere da strumento di riscatto e identità nazionale. La salvaguardia del patrimonio artistico durante la guerra ha rappresentato un atto di resistenza culturale, sottolineando l’importanza della memoria collettiva nella costruzione di una nuova identità nazionale.
La guerra ha messo in luce non solo la fragilità delle opere d’arte, ma anche il potere dell’arte di unire e ispirare, fungendo da ponte tra passato e futuro. È nostra responsabilità continuare a proteggerlo e valorizzarlo, affinché le generazioni future possano ereditare non solo la bellezza delle opere, ma anche il senso di identità e di continuità che esse rappresentano.
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